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La paura della morte e le condizioni del morire
2016, Settembre, 12 Silvia Bonino

La paura della morte e le condizioni del morire

L’uomo rifiuta naturalmente la morte, evento che segna la fine della sua esistenza e che egli è in grado di raffigurarsi quando è ancora in vita. Tutti gli esseri viventi ricercano la vita e a reagiscono in difesa della propria sopravvivenza in caso di pericolo; l’essere umano è però l’unico in grado di rappresentarsi la fine della propria esistenza, perché dispone della peculiare capacità di immaginarsi il futuro e riflettere su di sé.

L’uomo può raffigurarsi la morte come realtà ineluttabile, che tocca tutti gli esseri viventi e che è accompagnata da grande dolore, in base all’esperienza della morte degli esseri viventi che lo circondano e soprattutto delle persone a lui care. Pur non potendo sperimentare e conoscere la propria morte, egli sa che cosa significhino la fine della vita e la perdita delle persone amate.
Sulla base di queste penose esperienze, delle emozioni violente che esse suscitano e delle proprie capacità di pensiero e di riflessione, l’uomo si è sempre interrogato sulla morte e ha cercato di affrontare le paure che essa provoca, sia come morte propria che come perdita dei propri cari. La riflessione sulla morte, sul suo significato, su che cosa attende l’uomo dopo di essa, è una costante del pensiero umano fin dalla comparsa della nostra specie, come testimoniano i ritrovamenti preistorici di sepolture e riti funerari.
La rappresentazione della propria fine è intrisa di profonde emozioni di rifiuto. L’essere umano non può che respingere la realtà della propria fine, non solo per naturale e cieco istinto di sopravvivenza, ma perché attraverso il pensiero egli è consapevole della ricchezza della vita, del suo valore, della profondità delle relazioni affettive che ha intrecciato con gli altri, delle realizzazioni che ha raggiunto. La morte è la negazione della vita e di tutto ciò che essa rappresenta, poiché comporta l’annientamento di sé, il nulla, la perdita totale di noi e di tutto ciò che amiamo e ha dato senso alla nostra vita. Per questo la sua realtà non è mai stata accettata, anche quando, lungo i millenni della sua storia, la morte è stata compagna molto più vicina e presente nella vita dell’uomo di quanto non lo sia oggi nel mondo occidentale.
Se il vissuto di fondo dell’essere umano di fronte alla morte non può che essere di rifiuto, l’atteggiamento nei suoi confronti è fortemente legato alla cultura, in particolare all’atteggiamento verso la vita, alle convinzioni filosofiche e alle credenze religiose. Limitandoci alla cultura occidentale e al nostro tempo, è indubbio che la morte costituisce oggi, nella nostra cultura, il massimo tabù: di essa non si parla, si usano eufemismi per nominarla, la si occulta in tutti i modi. La società attuale, apparentemente così libera, ha una profonda difficoltà ad affrontare la morte, assai più di molte culture del passato.
Questa situazione è il risultato dell’influenza di molti fattori. Vi è, da un lato, l’accento posto dalla società occidentale sulla realizzazione dell’individuo, che la morte viene a negare in modo totale e irrimediabile. A questo si devono aggiungere la fiducia nella tecnologia e l’implicita e onnipotente convinzione di poter controllare a proprio piacere il mondo naturale. Tutte queste credenze vengono smentite in modo intollerabile dalla morte e di conseguenza essa, non potendo essere eliminata, viene nascosta, affinché non costituisca una sconfessione visibile delle nostre convinzioni.
Dall’altro lato si è accentuata negli ultimi decenni la perdita del senso religioso e più in generale di una riflessione spirituale, anche laica, sulla vita e sulla morte, capace di dare senso ad entrambe. I modelli consumistici hanno svolto a questo riguardo un ruolo importante: l’uomo occidentale si è accontentato sempre più di consumare, cessando di interrogarsi sul significato della propria presenza nel mondo, e quindi anche della propria fine.
Sul piano educativo, l’incapacità degli adulti a interrogarsi sulla morte, a parlarne e ad affrontarla, ha portato al suo progressivo occultamento ai bambini, per i quali essa è diventata un’esperienza sempre più lontana e distaccata. Portare i bambini a un funerale appare oggi a molti sconveniente e non è raro che venga nascosta la stessa morte dei nonni. Naturalmente la vita si incaricherà ben presto di far incontrare gli adolescenti con la morte, perlopiù in modo traumatico, nella forma di morte violenta di un coetaneo per incidente stradale, prima causa di morte in Europa per i giovani. La continua esibizione della morte attraverso i media sembrerebbe contraddire il generalizzato rifiuto e occultamento. Essa non deve trarre in inganno: la morte rappresentata dalle immagini televisive non è reale ed è accettata proprio perché è virtuale. Essa contribuisce anzi, a causa della sua ripetizione, ad aumentare il distacco emotivo dalla morte e a ridurla a uno spettacolo tra tanti, incapace di suscitare emozioni profonde. In questo modo la sovraesposizione virtuale produce un’anestesia emotiva che allontana sempre di più dalla morte vera e rende le persone sempre meno capaci di affrontarla.
All’occultamento della morte è corrisposto un aumento della paura nei suoi confronti. Questa conseguenza è inevitabile, perché sul piano psicologico le realtà nascoste, ma non eliminate o eliminabili, aumentano il loro potenziale ansiogeno. La negazione e la fuga possono essere meccanismi difensivi utili solo in via del tutto temporanea. Per mobilitare meccanismi di difesa adattivi, sia a livello individuale che sociale, è necessario che la realtà della morte, così come ogni altra realtà negativa ma inevitabile, non venga taciuta, ma di essa si prenda atto. Se non se ne parla, vengono a mancare non solo le parole per dirla a sé e per condividerla con gli altri, ma non si possono nemmeno sviluppare i pensieri per rappresentarsela e per difendersi, in forza dei profondi rapporti esistenti tra pensiero e linguaggio. Non solo: senza la parola e soprattutto senza il racconto vengono a mancare anche i momenti appropriati per condividere la morte. Per il dolore che essa suscita, la morte non può essere affrontata con le sole forze individuali, ma richiede che vi siano dei momenti rituali che sostengono l’individuo, lo legano agli altri e ne riducono la sofferenza.
Negli ultimi cinquant’anni anche il modo di morire è profondamente cambiato. I progressi tecnologici della medicina e l’esistenza di forme di servizio sanitario pubblico, o comunque di tutela sanitaria, hanno spostato sempre più nel tempo la morte e hanno permesso alla popolazione di accedere a tecniche molto costose. La conseguenza più evidente di questi cambiamenti è che oggi la morte non riguarda più soltanto il moribondo, la famiglia, la sua piccola comunità di vita ed eventualmente il medico al suo capezzale, ma l’istituzione sanitaria, con il suo personale e i suoi luoghi. L’evento della morte si è così spostato sempre più dalla casa all’ospedale. Questo significa che per la maggior parte delle persone la morte avviene in modo solitario, tra persone sconosciute, in un luogo estraneo spesso tecnicamente molto ben dotato, e in una istituzione – come quella ospedaliera – il cui scopo principale è mantenere in vita le persone e non accompagnarle a morire.
Il personale sanitario si trova così, perlopiù senza alcuna preparazione, in una posizione molto particolare e scomoda. Da un lato ad essi viene delegata da parte dei familiari la gestione degli ultimi giorni di vita delle persone. Oggi è difficilissimo per molte famiglie accettare di avere un moribondo in casa, e non solo per mancanza, in molte situazioni, di adeguato sostegno sanitario e assistenziale. Hanno un ruolo preponderante la paura della morte e la perdita della capacità di integrarla nella propria vita e in quella della propria famiglia; in queste condizioni pensare di avere un moribondo e un morto in casa risulta intollerabile.
Da parte sua, il personale sanitario non è perlopiù preparato professionalmente a fare fronte a questo evento, né nella formazione di base né lungo il percorso lavorativo. Le difficoltà nell’affrontare gli ultimi periodi della vita di una persona sono aggravate dall’abitudine a identificare il proprio ruolo e la propria riuscita professionale con la sconfitta della malattia e ancora più della morte. Per questo molti operatori sanitari, siano essi medici o infermieri, non comprendono che esiste un momento oltre il quale non si deve più cercare di intervenire e fare, in vista di un miglioramento impossibile, ma si devono invece accettare gli eventi e accompagnare le persone a morire. Quest’accettazione è oggi per molti difficilissima, perché è vissuta come un fallimento professionale e talvolta anche personale. Manca la comprensione che anche quando non si può più curare una persona, e tanto meno guarirla, è sempre ancora possibile prendersi cura di lei per darle sollievo e accompagnarla in una morte senza dolore e il più possibile serena.
Familiari e sanitari sono oggi sovente complici nella negazione della morte ormai vicina e il moribondo viene lasciato nella solitudine di fronte alla morte imminente. Contrariamente a quanto molti per difesa pensano, il malato è in grado di cogliere la morte imminente dai molti segnali che egli osserva con grande attenzione in sé e negli altri. Spesso le sue ansie non riescono a trovare voce e i suoi tentativi di parlare non trovano accoglienza, e vengono subito bloccati da frasi di vuoto ottimismo. Il morente può così decidere di fingere con i suoi stessi familiari, senza poter essere aiutato nel congedarsi dalla vita. A questo riguardo, gli studi hanno mostrato che le persone che stanno per morire attraversano, dopo una fase in cui i sentimenti di rabbia sono spesso prevalenti, una fase di distacco, necessaria per lasciare la vita con minore sofferenza. Solo la presenza discreta e affettuosa delle persone care, capace di accogliere il morente senza imposizioni e senza negazioni, può consentire alla persona che sta abbandonando la vita di accettare il distacco con serenità.

Silvia Bonino

Silvia Bonino

Silvia Bonino docente universitario di psicologia dello sviluppo e dell’educazione

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